Arturo PARISI (2008)

La Nuova Sardegna
22 giugno 2008


Primarie se non c'è unanimità su Soru
Veltroni? Ha fallito, cambiamo leader



di Filippo Peretti



CAGLIARI. L'ex ministro della Difesa, prodiano e ulivista doc, ora va all'attacco. Dopo il nuovo strappo di venerdì all'assemblea costituente nazionale del Partito democratico, dove ha contestato tutto, dalla linea politica alla mancanza di dibattito, dal metodo di votazione al ritorno delle correnti organizzate, Arturo Parisi rompe anche gli ultimi indugi su Walter Veltroni: «Bisogna cambiare leader». E sulla Sardegna, pur dando un giudizio positivo sull'azione di governo di Renato Soru, Parisi afferma: «Se non c'è unanimità su di lui bisogna andare alle primarie».

- Arturo Parisi, iniziamo dalla Sardegna. Vanno fatte le primarie per scegliere il leader alle elezioni regionali del 2009? O deve essere automatica la conferma del presidente uscente?

«Le primarie possono essere escluse solo se l'accordo sull'automatismo della conferma fosse sostanzialmente unanime».

- Il confronto sembra molto lontano da una soluzione unitaria.
«Se questa unaninimità non fosse verificata, seguendo lo statuto del Pd, mi chiederei piuttosto se le primarie debbano essere di partito o di coalizione».

- Va recuperato il rapporto con gli alleati del centrosinistra o anche nel 2009 il Pd deve andare senza la sinistra?
«Per vincere è necessario ricostruire e rafforzare la coalizione più ampia possibile».

- Qual è il suo giudizio sui quattro anni di governo Soru?
«Positivo».


- Non vede anche delle lacune?
«Non dico che nella somma manchino gli addendi negativi. Ma il totale resta positivo».

- In questi ultimi anni è sembrato che lei avese avuto qualche ripensameto.
«Anche se i miei rapporti con Soru non sono stati sempre idilliaci non mi sono mai pentito di essere stato sostenitore convinto della sua candidatura».

- Perché?
«Grazie alla elezione diretta del Presidente e a Soru, la Sardegna in quanto tale, e non questa o quella provincia, questa o quella categoria, è stata al centro dell'azione di governo. Talvolta semmai anche troppo. O perché abbiamo dimenticato il senso del nostro limite. E' comprensibile che ogni sardo senta la Sardegna come il centro del mondo. Ma sarebbe pericoloso che dimenticasse che il mondo esiste».


- Soru è stato criticato molte volte per il suo metodo di governo.
«A volte ha dato l'impressione di scambiare la Sardegna con la Regione Sarda, la Regione con la Giunta, e la Giunta con se stesso».

- Che fare?
«E' su questo che, grazie alla presenza di più proposte, le primarie potrebbero consentirerci di parlare e di scegliere. Di come dar seguito ad una concezione poliarchica della democrazia ed evitare i rischi di una pratica monarchica, o una regressione oligarchica».

- Il partito in Sardegna ha gli stessi difetti del partito nazionale?
«No. Nonostante anche noi abbiamo i nostri difetti, e i disagi non manchino, da noi le cose vanno meglio. E questo è anche dovuto all'equilibrio assicurato dalla presenza di Soru. Anche se so che la democrazia è fatica, l'esistenza di una dialettica reale aiuta tutti ad essere più attenti agli altri e più rispettosi delle regole».

- A livello nazionale lei è il contestatore numero uno, come ha confermato anche venerdì all'assemblea costituente. Pone una una questione di leadership?
«E' difficile negare che esista. Ma mi illudevo di poter distinguere la leadership dal leader perciò chiedevo a Veltroni di cambiare linea. Sono passati due mesi pieni e di fronte a ripetuti avvertimenti che ci vengono dagli eletori e dall'interno del partito la linea non è cambiata. E' evidente allora che a questo punto bisogna cambiare leader».

- Cosa rimprovera al vertice?
«Il problema numero uno è ancora il rifiuto e forse l'incapacità di riconoscere la sconfitta. E' una sconfitta la cui gravità è misurata non dal risultato elettorale ma dalle dinamiche che l'hanno prodotto. Una sconfitta politica, non una sconfitta elettorale»

- C'è chi si è difeso paragonando i risultati del Pd alle elezioni precedenti e ai sondaggi sul governo Prodi.
«Ma non è certo così che va cercata la misura della sconfitta, che è evidente solo se confrontiamo la risposta degli elettori con la proposta politica messa in campo».

- La proposta di andare da soli?
«Una linea che ha due nomi: Veltroni e Bertinotti. Quella della "separazione consensuale". Sulla risposta degli elettori i dati parlano da soli».

- Qual è oggi la via d'uscita?
«Nessuno, e men che mai io, abbiamo ora risposte pronte per l'uso. Si è aperta per tutti una stagione di elaborazione del lutto. Ma è difficile trovare risposte senza porsi prima delle domande».

- E' il confronto che manca?
«E' per questo che mi sento pessimista sul futuro del partito».

- Perché, secondo lei, viene negato il dibattito interno?
«Perché sono preoccupati che il partito si confronti con il 2000 e il '94, quando i leader sconfitti aprirono un dibattito sulla guida del partito. Così siamo costretti a parlare della sconfitta solo in corridoio. Insomma, per non parlare degli sconfitti si finisce per negare la sconfitta».

- Si riferisce solo a Veltroni?
«E' una sconfitta da imputare a tutto il gruppo dirigente».

- Eppure dicono che si è andati lungo il sentiero dell'Ulivo.
«Il percorso dell'Ulivo era guidato dall'idea di un bipolarismo a vocazione bipartitica, ma nel campo di centrosinistra il Pd era il nome della stazione di arrivo. Qua invece per errore, e impazienza personale, siamo scesi alla prima stazione che abbiamo trovato e l'abbiamo chiamata Pd».

- Il rapporto con la sinistra radicale, anche nel governo, si era però logorato.
«Anziché condidere in allegria quella che abbiamo chiamato separazione consensuale, sarebbe stato meglio, appunto come andavamo dicendo, andare a un confronto programmatico sotto gli occhi di tutti, pronti alla rottura o alla ricerca di una nuova unità riformatrice. Così sarebbe stato chiaro chi era interessato alla soluzione dei problemi e chi invece solo alla loro agitazione».

- Invece?
«Ci siamo accontentati di esibire la nostra moderazione solo perché condividevamo l'agenda del centrodestra, e perché non chiamavamo più semplicemente Berlusconi "il principale esponente dello schieramento a noi avverso". E' questo che al di là delle parole ha sconcertato gli elettori».

- Insomma, il Pd non è apparso il partito nuovo che diceva di essere. E' così?
«Se Diamanti registra la diffusa impressione che il Pd sia un Pds senza la esse, se nella ricostruzione della nostra cartografia elettorale il suo giornale titola che il Pd "resta" laddove è sempre stato, se la dialettica interna riconosce seppure nelle semplificazioni giornalistiche che i poli della dialettica interna sono Veltroni e D'Alema, qualcosa pure vorrà dire».

- Lei ha duramente criticato anche il ritorno delle correnti.
«Se ogni dibattito politico viene impedito persino nelle riunioni dell'assemblea costituente non c'è da meravigliarsi di fronte alla esplosione di correnti camuffate da fondazioni, associazioni, centri studi secondo la migliore tradizione dei partiti di correnti».

- Vede un rischio scissione?
«Non un rischio scissione, ma una dissoluzione della spinta e dell'appeal al quale abbiamo affidato il futuro del Pd e quindi della concreta possibilità di dar vita anche in Italia ad una democrazia competitiva».

- Come fare opposizione?
«Se essere nuovi significa assumere alla base della nostra identità le domande e spesso le risposte del centrodestra è evidente che la distinzione rischia di attenuarsi. Ma stretti dalla consapevolezza che nella nostra base, con l'afflusso degli elettori di sinistra, la componente di opposizione è cresciuta, ora i dirigenti del Pd rischiano di finire a rimorchio di qualsiasi iniziativa come quelle promosse da Idv e talvolta dall'Udc».