Mario Segni


da La Nuova Sardegna
24 luglio 2005

«E’ dal 1993 che lavoro
per il dopo Berlusconi»


Perché è stato fondato il Movimento per la Repubblica, nuova «casa dei moderati»

di Filippo Peretti

Mario Segni è di nuovo protagonista sulla scena politica nazionale. Assieme all’ex presidente del Senato Carlo Scognamiglio e all’ex ministro Vincenzo Scotti ha appena fondato una nuova creatura: il Movimento per la Repubblica. E’ il progetto ambizioso di costruire («in alternativa alla sinistra») uno schieramento moderato che sia diverso dalla Casa delle libertà. Un progetto che parte proprio da quello che il leader referendario definisce «l’inevitabile fallimento del berlusconismo».

Professor Segni, con la crisi del Centrodestra molti si sono messi a lavorare per il dopo Berlusconi e ora anche lei...
«Scusi se la interrompo, ma per la prima volta vorrei precisare una cosa su di me con un po’ di immodestia».

Prego.
«Io ho il titolo per dire che si faccia qualcosa al posto della Casa delle libertà che sta crollando».

In base a che cosa?
«Sono stato il primo a rifiutare un accordo con Berlusconi».

Quando avvenne?
«Tutto iniziò con un pranzo a casa di Gianni Letta, nell’ottobre 1993».

Lei aveva appena lasciato la Dc e lui stava preparando la discesa in campo.
«Sì. Berlusconi mi propose una battaglia politica comune per fermare la sinistra».

Perché rifiutò?
«Gli dissi: se mi vuoi appoggiare te ne sarei grato, se entri in politica fai un errore».

Un errore?
«Gli dissi: Agnelli sarebbe il migliore ministro dell’Industria, ma tutti penserebbero che lo fa per la Fiat».

E Berlusconi non rimase turbato.
«Con sincerità mi disse che doveva entrare in politica per salvare le sue aziende».

Fu così esplicito?
«Mi riferì che non dormiva più a causa dei debiti e del governo di sinistra».

Non governava Ciampi?
«Per lui era di sinistra».

Cosa lo tormentava?
«Mi spiegò che senza un diverso quadro politico le sue aziende avrebbero chiuso».

Avete poi recuperato il rapporto?
«Mai».

Ma ora c’era bisogno di un fondare un altro partito con Scognamiglio e Scotti?
«Piano, per favore. Non abbiamo fondato alcun partito, ce ne sono già troppi».

E cosa è il Movimento per la Repubblica?
«Dappertutto ci sono gruppi che lasciano la Casa delle libertà. Vogliamo unificarli».

Molti sono opportunisti.
«C’è una grande parte dell’Italia che è sinceramente angosciata. Ha sperato in Berlusconi e ora non vede una prospettive».

La risposta è un centro liberaldemocratico?
«L’attualità è questa. Va offerta un’alternativa seria alla sinistra».

Anche Berlusconi si definisce liberaldemocratico.
«E’ un inganno che ha già provocato fin troppi guai».

E il partito unico?
«Un pastrocchio che punta a salvare la succursale politica di Arcore».

Il Cavaliere non riuscirà a salvare la Cdl?
«Ci sono voluti dieci anni, ma il berlusconismo è finito».

Quali le cause?
«Le ragioni vanno ricercate nei vizi iniziali».

Il conflitto di interessi e il partito azienda?
«Certo. E in più l’intesa con la Lega».

E i limiti dell’azione di governo?
«Sono una conseguenza».

In che senso?
«Non si può fare politica senza princìpi forti che prescindono dall’economia e dall’amministrazione».

Berlusconi aveva puntato proprio su quei punti.
«Ma non si governa un popolo promettendo bistecche o viaggi alle Maldive».

Molti però si sono fatti convincere.
«Ma quando le cose vanno male la gente capisce che è meglio farsi guidare da un gruppo dirigente di cui avverte la carica ideale».

La proposta del centro non è contraria alla sua linea del bipolarimo?
«Anzi, è per un serio bipolarismo: la sinistra da una parte e lo schieramento moderato dall’altra».

E la destra?
«Solo in Italia il bipolarismo è stato interpretato con la logica del tutti insieme».

Gli schieramenti disomogenei?
«Guardiamo la Francia: il centro non ha mai fatto accordi con la destra. Perché si deve stare con la Lega?».

Per vincere.
«Meglio perdere che essere travolti dalle idee di Bossi».

E An?
«Il discorso è diverso. Ha abbandonato i fascisti».

Ma è alle prese con altri problemi.
«E mi auguro che sia qualcosa di diverso dal penoso spettacolo di oggi».

Con An lei ha fallito all’epoca dell’Elefantino, l’alleanza alle Europee del ’99.
«Ma l’idea era giusta».

Quale idea?
«Unire moderati e destra moderna, preparavo già l’alternativa a Berlusconi».

Perché fallì?
«Era troppo sbilanciata a destra. E poi Fini non aveva capito di che stoffa erano i suoi dirigenti».

Lei l’aveva intuito?
«Gliene parlai. E nei giorni scorsi mi ha telefonato per dirmi: avevi ragione tu».

Lei ha chiamato a raccolta i centristi, iniziando da Casini. Perché lui?
«E’ quello che ha le maggiori responsabilità e quindi le maggiori opportunità».

La convince la sua presa di distanze da Berlusconi?
«Mi è piaciuta l’idea di un ritorno al miglior popolarismo democratico».

Vuol dire che l’attuale presa di distanze non è sufficiente?
«Certo che no. Casini deve avere il coraggio di creare una cosa nuova, non può aspettare ancora».

Aspettare che cosa?
«Sono anni che aspetta di essere nominato delfino di Berlusconi. Deve capire che non ci sarà eredità».

Non sarà lui l’erede?
«La Cdl, come un’azienda che fallisce, non lascia eredità».

Cosa chiede a Casini?
«Basterebbe un atto forte, in coerenza anche con le critiche alla devolution di Bossi».

Fuori dalla Cdl si è rivolto all’Udeur e non alla Margherita. Perché?
«Mastella dice che sta a sinistra solo perché dall’altra c’è Berlusconi».

Non vede prospettive di dialogo con la Margherita?
«Ha una strategia nel Centrosinistra. Il discorso è più complesso, ma non chiuso del tutto».

In che senso?
«Le pare che Dini sia un uomo di sinistra?».

Non sposterebbe molti numeri.
«Come nell’Udeur, anche nella Margherita non sono pochi a soffrire il rapporto con la sinistra più radicale».

Ma non mettono in discussione l’alleanza.
«Stanno insieme perché sono tutti contro Berlusconi».

Nella Margherita chi preferisce tra Rutelli e Parisi?
«E’ più illuminata la strategia di Parisi».

Perché?
«Rutelli vuole un partito di centro nell’Unione, Parisi più centro in un soggetto unitario, cioé un’alternativa non dominata dalla sinistra».

Nel Movimento per la Repubblica ci sarà anche Cossiga?
«Ci parleremo, ci sono punti politici comuni e una vecchia amicizia».

Su che cosa si fonda il vostro programma?
«Un centro liberaldemocratico ha il dovere di diventare il partito dei doveri. E’ la prima volta, dopo tanti anni, che non si parla di rivendicazioni e di lusso».

Spieghi le proposte concrete.
«L’Italia deve ritrovare il senso della legge, della disciplina, del sacrificio, della scuola che educhi, deve puntare sul merito e non sulle facilitazioni, bocciare gli studenti che non studiano e licenziare i fannulloni».

Non è un po’ severo?
«Severissimo».

Anziché prendere voti rischia di perderne?
«Non lo so, ma è quello che serve. Sono le cose che hanno fatto grande l’Italia negli anni Cinquanta. Possiamo farlo solo noi».

Perché solo voi?
«Questa destra è da telenovela, la sinistra è troppo massimalista e ancora sessantottina».

O forse non si riconosce nelle cose che lei dice.
«Eppure gli ultimi a dire queste cose sono stati due grandi personalità cui si ispira il centro-sinistra».

Chi?
«Aldo Moro ed Enrico Berlinguer».

Quando loro dialogavano, lei li contestava.
«Avere gli stessi valori non significa fare politica comune».

Lei è considerato un leader referendario. Perché i referendum ormai falliscono tutti?
«Per colpa di Pannella che li ha inflazionati. E anche per l’apatia profonda del Paese».

Serve una riforma della legge?
«Sì, va ridotto il quorum».

Ha votato al referendun sulla fecondazione assistita?
«Sì, per difendere lo strumento referendario. Non condivido la posizione del cardinale Ruini».

Lei è stato a lungo nella Dc. Il meglio di quel partito?
«Il seme. Lo dissi nel 1992: siamo una mela bacata con un seme forte e sano».

Il peggio?
«L’apparato scaduto e a un certo punto la corruzione. Mani Pulite non fu un’invenzione».

Chi, parenti a parte, vorrebbe della vecchia Dc?
«L’uomo che per me ha rappresentato di più è Moro, pur da posizioni antitetiche».

Nel 1993, lasciata la Dc, in Alleanza democratica lei si ritrovò con Adornato, che oggi è con Berlusconi.
«Provo una grande amarezza. Non è il fatto che è a destra, è perché si è inquadrato nel berlusconismo con atteggiamenti persino ridicoli».

Nel 1994 col Patto Segni fu eletto anche Tremonti, che passò subito con Berlusconi. L’ha perdonato?
«Il tradimento del mandato elettorale non può essere politicamente perdonato».

E personalmente?
«A Tremonti non possono essere perdonate neanche altre cose».

Quali?
«I danni che ha fatto con la finanza creativa. O ingannando gli italiani dicendo che tutto andava bene».

Veniamo alla Sardegna. Qual è il giudizio dopo un anno di governo Soru?
«Guardando non da Sassari ma da oltremare e in modo un po’ spassionato, devo dire che alcune cose le apprezzo».

Quali?
«Le battaglie sulle coste, ma più sul principio che sui particolari, e sulla burocrazia, il no alla base della Maddalena».

Proprio lei che è sempre stato filo-americano?
«Ho difeso la base finché c’era l’Unione Sovietica, oggi non ha senso».

I punti che invece non condivide?
«Ce n’è soprattutto uno ed è nettissimo: la sua proposta di legge sul conflitto di interessi».

Cosa non va?
«E’ debolissima. Non capisco il Centrosinistra. Per anni ha giustamente combattuto lo scandalo Berlusconi e ora presenta una legge così. E’ un danno anche per Soru».

Un danno politico?
«Certo, è esposto a molti problemi».

Di immagine?
«Anche di governo. Quando si occupa dei temi a lui più vicini, gli sono giustamente tutti addosso».

Non c’è il rischio che una legge più severa sia anticostituzionale?
«E’ vero, non si può obbligare nessuno a vendere».

E allora?
«Si può evitare a chi è in conflitto di interessi di fare politica attiva e di governare».

Condivide gli attacchi del centrodestra?
«Non sono credibili, come non è credibile la posizione della sinistra».

Perché?
«Gli uni perché non lo dicono anche per Berlusconi, gli altri perché non lo dicono anche per Soru».

Lei ha contestato le Regioni. E’ in controtendenza rispetto alla linea del federalismo.
«L’unica Regione che ha diritto di parlare di federalismo è la Sardegna».

Per il resto è stato davvero un fallimento?
«Il mio giudizio voleva essere provocatorio. Ma le Regioni hanno troppi limiti».

Può elencarli?
«Sono sede del nuovo accentramento di poteri e della più sfrenata partitocrazia. E hanno competenze eccessive».

Da parlamentare europeo si è battuto per il principio dell’insularità. Tutto inutile?
«Sono molto amareggiato. L’unico uomo di governo che mi ha aiutato è Amato».

Chi può farlo ora?
«Spetta alla Regione. Ma mi sembra che non si sia capita l’importanza».